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1 " Per me fotografare significa prelevare campioni del mondo reale e metabolizzarli, come sostanza necessaria e nutriente per la memoria, e sono convinto di avere un rapporto bulimico con la realtà. Scatto davvero molte fotografie anche se, facendo per lo più uso del cavalletto e di una macchina di grande formato, riesco a controllarmi e a non farmi prendere troppo la mano dalla rapidità quasi compulsiva sempre in agguato e a mantenere un ritmo lento e misurato. "
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2 " Le città sono come un libro che bisogna leggere per intero, diversamente si rischia di non afferrarne il senso. La periferia, i margini e le zone di nuova espansione: nella mia vita sono andato a finire sempre un po' più in là. In effetti, sono le zone che mi interessano di più. E se è vero, come ribadisco incessantemente, che la città è come un grande corpo dilatato, incommensurabile, per capirci qualcosa bisogna avere pazienza, tenere a bada quel sentimento di conquista, quella vertiginosa sensazione di possesso che un'immagine troppo rapida e furtiva può restituire. "
3 " Per prima cosa, come sempre, mi procuro una carta. Bisogna provare a imparare a leggere la forma della città, i suoi percorsi urbani. Verificare immediatamente nella realtà, cercare. Le guide, le mappe colorate, a diverse scale di ingrandimento, in genere sono molto meglio di quelle che mi sono state spedite (quei 1:5000 e 1:10000 bluastri degli studi di urbanistica, iper dettagliati, ma scomodi e quindi inservibili per fare i sopralluoghi). Arrivo finalmente sul luogo: agglomerati recentissimi, non ancora ben riconoscibili sulla carta, che testimoniano una vasta zona di espansione. "
4 " Credo di poter dire oggi che ci siano due nuovi concetti che da allora sono diventati emblematici del mio rinnovato alfabeto fotografico: il senso dell'infinito come oggetto, come spazio osservato, che sta fuori e al di là della macchina fotografica, e che io non avevo mai rappresentato prima, e la pratica della contemplazione, che induceva uno sguardo lungo, uno sguardo iperanalitico che, per vedere e rappresentare quello che mi stava davanti, aveva bisogno di un tempo dilatatissimo. Ho scoperto "la lentezza dello sguardo". Uno sguardo lento, come era stato per Eugène Atget e Walker Evans, uno sguardo che mette a fuoco ogni cosa, che porta a cogliere tutti i particolari, a leggere la realtà in un modo assolutamente diretto: quindi il grande formato, il cavalletto, il ritmo rallentato, la luce così com'è, senza filtri, guardare e basta. In contemplazione davanti a questa meraviglia della natura ricca e mutevole. La fotografia rischia persino di essere qualcosa di estraneo, che infastidisce, ma che si usa perché è l'unico mezzo possibile per raccontare ad altri quello che si prova, si vede e si comprende. E in questo senso è anche un documento: di quello che si è visto. "