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" Praticare l'arte della "dissolvenza" verso se stessi. Mettersi in dissolvenza. Rendere indistinte le nostre proteste, le nostre grida di terrore, d'esecrazione o di giubilo. Appannare i nostri tratti severi, attenuare l'invadenza dello sguardo e quel che di troppo pronunciato v'è nel nostro modo di alzare la mano. Lasciare che anche la nostra inflessibile cadenza di intellettuali, la nostra gravità di moralisti, non vengano prese troppo sul serio. In questo l'arte della dissolvenza ha qualcosa in comune con l'umorismo. E anche la nostra pretesa di esserci, di affermare ed affermarci, sia pure con qualche piccola prevaricazione, questa pretesa di imporre ragionevolmente quel che siamo o pensiamo di essere, insomma la nostra voglia di contare, insomma sopratutto questo deve essere messo in dissolvenza o meglio in quella mezza luce che può suscitare un ironico sospetto sulla commedia della cosidetta personalità. Si tratta di insinuare il dubbio sulla forza della nostra apparenza, così da far pensare che questo voler alzare la voce, sia pure per qualche breve momento, nasconda il timore di non essere ascoltati. Il fatto è che vogliamo disperatamente essere ascoltati anche a costo di parlare solo con le ombre. Ma è appunto questa disperazione che ci fa diffidare della nostra pretesa. Lasciamo pure che nessuno ci ascolti. Finiremo così per dare anche noi meno ascolto a noi stessi e qundi alla nostra stessa disperazione". "

, Pensare il Buddha


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